Dick, un filosofo in garage

Quando credo, sono pazzo.

Quando non credo,

soffro di depressione psicotica

Philip K. Dick

Philip K. Dick è probabilmente lo scrittore di fantascienza più importante degli ultimi cinquant’anni. Nella sua breve carriera ha scritto 121 racconti e 45 romanzi. Dick ha avuto successo già in vita, ma la sua fama è cresciuta esponenzialmente dopo la morte nel 1982. Le sue opere sono probabilmente meglio conosciute per i film di grande successo che ne sono stati tratti, come Blade Runner (adattato da Il cacciatore di androidi), Atto di forza (da Ricordiamo per voi), Minority Report (da Rapporto di minoranza), Un oscuro scrutare (dal romanzo omonimo) e, da ultimo, I guardiani del destino (da Squadra riparazioni). Pochi, però, considerano Dick un filosofo o un teorico degno di nota. Questo è un errore, come spero di dimostrare.

La sua vita è costellata di episodi di follia e intossicazione ed è ormai diventata una leggenda, che secondo alcuni, tuttavia, distoglie l’attenzione dalla sua genialità letteraria. Jonathan Lethem scrive (giustamente): «Dick non era una leggenda e non era un pazzo. Ha vissuto tra noi ed è stato un genio». La sua vita continua però a pesare molto nella valutazione delle sue opere.

Tutto ruota intorno a un evento che i fan di Dick definiscono semplicemente «il pesce d’oro». Il 20 febbraio 1974, dopo essere andato dal dentista per un dente del giudizio incluso e aver ricevuto una dose di pentothal, Dick fu colpito con forza da una rivelazione straordinaria. Una ragazza gli portò a casa, a Fullerton in California, un flacone di compresse di Darvon. Aveva una collana da cui pendeva il ciondolo di un pesce d’oro, antico simbolo cristiano che era stato adottato dal Jesus movement alla fine degli anni Sessanta.

Il ciondolo a forma di pesce cominciò a emettere un raggio di luce dorata e Dick improvvisamente ebbe quella che chiamò, in omaggio a Platone, anamnesis: la rivisitazione o rievocazione dell’intera summa del sapere. Dick disse di essere riuscito ad accedere a ciò che i filosofi chiamano «intuizione intellettuale»: la percezione diretta da parte della mente di una realtà metafisica oltre il velo dell’apparenza. Molti filosofi, da Kant in poi, hanno sostenuto che intuizioni di questo genere sono esperienze religiose o mistiche che possono discendere solo da un oscurantismo fraudolento, come le visioni delle schiere angeliche di Emanuel Swedenborg. Kant le definì, con una bella parola tedesca, die Schwärmerei, una sorta di entusiasmo brulicante, dove l’io è letteralmente fuso con il Dio, con il Theos. Liberandosi bruscamente dalle limitazioni e restrizioni che Kant aveva posto sui differenti domini della ragion pura e pratica, il fenomenico e il noumenico, Dick affermò di pervenire all’intuizione diretta della natura ultima di ciò che chiamò la «vera realtà».

L’episodio del pesce d’oro fu solo l’inizio. Nei giorni e nelle settimane seguenti, Dick ebbe, con indubbio piacere, un paio di visioni psichedeliche che durarono tutta la notte, con tanto di immagini caleidoscopiche e fantasmagoriche. Questi episodi ipnagogici continuarono a presentarglisi di tanto in tanto, assieme a voci e sogni profetici, fino alla morte avvenuta otto anni dopo, all’età di 53 anni. Furono esperienze di varia natura, molto strane (troppe per elencarle qui), tra cui quella di un vaso di argilla che chiamava Ho On o Ho Oh, che gli parlava di profonde questioni spirituali con voce imperiosa e irascibile.

Si era trattato di un brutto viaggio con l’acido o di una bella esperienza con il pentothal? Dick era pazzo? Psicotico? Schizofrenico? (Scrive: «La schizofrenia è un balzo in avanti che non è riuscito»). Le visioni erano semplicemente l’effetto di una serie di convulsioni cerebrali, o crisi di epilessia dei lobi temporali? Possiamo ora spiegare e archiviare le esperienze visionarie di Dick con qualche più aggiornata teoria neuro-scientifica sul cervello? Forse. Ma il problema è che queste spiegazioni meccaniche non colgono la ricchezza dei fenomeni che Dick cercava di descrivere e rischiano di trascurare il suo particolare modo di descriverli.

Sta di fatto che dopo aver vissuto gli eventi che poi chiamò 2-3-74 (gli eventi di febbraio e marzo di quell’anno), Dick dedicò il resto della vita a cercare di capire cosa gli fosse successo. E per lui capire significava scrivere. Dato che soffriva di quel che potremmo definire «ipergrafia cronica», tra 2-3-74 e la morte scrisse più di 8.000 pagine sulla sua esperienza. Spesso scriveva per tutta la notte, anche venti pagine alla volta, battute a macchina o scritte a mano, con righe fitte condotte fino ai margini, cosparse di diagrammi bizzarri e di schizzi criptici.

Dopo la sua morte, questa montagna di carta è stata raccolta in circa 91 cartelle dall’amico Paul Williams, che le ha poi riposte nel suo garage a Glen Ellen, in California, dove sono rimaste per parecchi anni. Sono state chiamate complessivamente Exegesis. Alla fine del 2011 ne è stata pubblicata una selezione di oltre 950 pagine, con un pesce d’oro sulla copertina del volume, che è però solo una piccola parte del tutto.

Dick scrive: «La mia esegesi è un tentativo di capire il mio modo di capire». Il libro è l’atto più straordinario ed esteso di auto- interpretazione mai fatto, una riflessione apparentemente infinita — che noi possiamo cominciare a leggere oggi, a trent’anni esatti dalla morte — sull’evento del 2-3-74, che sembra sempre ricominciare. Spesso noioso, ripetitivo e paranoico, Exegesis possiede anche molti passaggi di autentica genialità ed è sempre contraddistinto da una sincerità assoluta e disarmante. A volte, come nell’epigrafe citata, Dick cade nella melanconia e nella disperazione. Ma in altri momenti, come un moderno Simon Mago, sembra posseduto da un io ipertrofico che lo porta a essere tutt’uno con il divino: «Sono stato nella mente di Dio».

Per capire cosa gli era successo il 2-3-74, Dick utilizzava le risorse che aveva a disposizione e che più amava: la quindicesima edizione completa dell’Enciclopedia Britannica, che aveva acquistato alla fine del 1974, e l’Enciclopedia della filosofia di Paul Edwards, un’opera in otto volumi, probabilmente insuperata, uscita nel 1967 — uno dei documenti filosofici più ricchi e ampi mai prodotti. Dick li leggeva in modo casuale ed eclettico. Le enciclopedie gli permettevano di fare associazioni rapide e spontanee che davano una certa coerenza formale e sistematica alle sue galoppanti ossessioni. Scorrendo e raffrontando diverse voci, Dick trovava ovunque collegamenti e corrispondenze. Gli capitarono tra le mani anche i testi di vari filosofi e teologi — tra cui i presocratici, Platone, Meister Eckhart, Spinoza, Hegel, Schopenhauer, Marx, Whitehead, Heidegger e Hans Jonas. Le sue interpretazioni sono a volte piuttosto bizzarre, ma spesso affascinanti.

Questo mi fa giungere a un punto importante. Dick era un irriducibile autodidatta. Quando era all’università riuscì a resistere meno di un semestre. Nel 1949 si iscrisse a un corso di filosofia a Berkeley, ma lo abbandonò dopo poche settimane. Lasciò la classe disgustato dall’ignoranza e dall’intolleranza dell’insegnante a cui aveva fatto una domanda sulla plausibilità della teoria metafisica delle forme di Platone (che venne poi avvalorata dall’esperienza del 2-3-74). Dick non ebbe una formazione filosofica o teologica. Era un filosofo dilettante o, per usare un’espressione di Erik Davis, era quella cosa meravigliosa che è un filosofo da garage.

La mancanza di rigore accademico e scientifico è in lui più che compensata dalla forza dell’immaginazione e dalla ricchezza delle sue associazioni trasversali. Se fosse stato più colto, avrebbe forse creato concatenazioni di idee meno interessanti. In un’annotazione verso la fine di Exegesis, dice: «Sono un filosofo che scrive narrativa, non un romanziere». Poi aggiunge: «Lo scopo del mio scrivere non è l’arte, ma la verità». Sembra un paradosso, dato che la ricerca della verità, il classico obiettivo del filosofo, non è qui vista in opposizione alla narrativa, ma è essa stessa un’opera narrativa. Dick considerava la sua attività di scrittore di romanzi un tentativo creativo di descrivere quella che a lui appariva la vera realtà. Dice ancora: «Sono sostanzialmente analitico, non creativo, la mia scrittura è semplicemente un modo creativo di condurre l’analisi».

Simon Critchley, Dick, un filosofo in garage, trad. it. di Maria Sepa, in Corriere della Sera, 16 febbraio 2012